sabato 26 maggio 2007

Dellai stronca il Partito democratico

Il governatore Lorenzo Dellai, stimolato dal dibattito - nazionale e locale - sui mali della politica e le disillusioni dei cittadini, offre una sua analisi della situazione e indica anche alcune misure «non con valore taumaturgico» - precisa - per dare segnali concreti e tentare di riformare la politica.
Tra queste, annuncia a sorpresa - visto che fino ad oggi i partiti della sua coalizione hanno detto no alle richieste avanzate del centrodestra - l'esigenza di «ridiscutere la legge elettorale provinciale nel segno della semplificazione istituzionale». E cita tre possibili modifiche utili: «Un tetto al numero di assessori provinciali, che oggi non c'è; meccanismi elettorali per disincentivare il proliferare di liste, come la soglia di sbarramento; infine, l'eliminazione della distinzione tra il ruolo di assessore e quello di consigliere provinciale, se si trova un consenso largo».
Ma soprattutto Dellai boccia - ora senza più remore - il Partito democratico, in particolare per il modo in cui sta nascendo a livello nazionale. E ne prende le distanze anche alla luce di come è stato costituito mercoledì il «comitato dei 45», che dovrà guidare la fase costituente del nuovo partito. Il governatore trentino sposa le preoccupazioni di Sergio Chiamparino, sindaco di Torino, che è rimasto escluso dal comitato.

Presidente Dellai, il Partito democratico riuscirà a rappresentare quel cambiamento necessario a dimostrare che la politica non vuol dire solo privilegi, ma esercita una funzione importante per la società? La composizione del «comitato dei 45» è parsa più il risultato delle vecchie logiche di spartizione tra correnti, non è un bell'inizio, non pensa?
Non è da oggi che sono scettico su come a livello nazionale sta venendo avanti il Partito democratico e dunque non mi meravigliano queste esigenze di equilibrio così come non mi meraviglia vedere sulla stampa nazionale un insieme di prese di posizione soprattutto al Nord Italia, dove il centrosinistra fatica moltissimo.

Si riferisce al sindaco Chiamparino che ha sottolineato come Piemonte, Liguria e Nord-Est siano sostanzialmente esclusi dal comitato?
E non solo lui. Emerge il limite molto forte del modo in cui si sta facendo nascere il Partito democratico. Il fatto che dal mio amico Chiamparino ed altri si sia sentita l'esigenza di dire che quello che è nato è un comitato fortemente romanocentrico, rende ancora più importante quello che noi abbiamo sempre sostenuto e cioè che i nuovi soggetti politici nascono nei territori, oppure rischiano di non nascere. C'è bisogno di forti proiezioni nazionali e internazionali, ma c'è bisogno anche di forti radici territoriali. La gente può riavvicinarsi alla politica anche attraverso questa duplicità: grandi valori universali, ma forti radici territoriali. Tutto questo non c'è nel processo, così come non c'è la volontà di costruire una nuova cultura politica, che non vuol dire solo l'aggiornamento di quella del '900.

Lei dunque si chiama fuori?
Nessuno mi ha chiesto di entrare nel comitato nazionale. E comunque penso che in Trentino noi saremmo più utili alla politica nazionale se ci liberassimo dal complesso di dover fare le cose con la regia, nei tempi e con le sigle dettate a Roma e tirassimo fuori dal nostro territorio gli elementi per una nuova politica. Noi possiamo portare elementi molto più innovativi e più significativi.

Il suo progetto per il Trentino se non è il Partito democratico, cos'è? Ce lo spiega?
In Trentino serve una proposta politica più globale e generale, noi non dobbiamo costruire schemi ad immagine delle nomenklature politiche, solo così la politica può essere partecipata. La Margherita quando è nata per me era in sé un piccolo Partito democratico, anche se ancora una via intermedia. L'idea che si costruiscano soggetti politici del 2000 e non del '900 non può non affascinare chi non è nostalgico e noi non siamo nostalgici, ma deve essere questo però. Se non è questo non ha senso e il Partito democratico non mi pare che sia questo, oltre ad essere troppo nazionalista. In fondo forse l'errore a livello nazionale è stato quello di legare troppo le sorti del Partito democratico a quelle del governo. I partiti se nascono bene devono avere un orizzonte che va oltre la durata di un governo: questo avrebbe consentito maggiore libertà e una percezione più positiva.
La classe politica del nostro Paese riuscirà a riformare sé stessa o verrà travolta?
Il dibattito di questi giorni, a livello nazione, sui costi della politica è importante, se non ha secondi fini, perché può portare nuove regole, misure di sobrietà nelle istituzioni, tentativi di fare cose veramente nuove e non scopiazzate, può rappresentare un pacchetto di misure per la ricostituzione dell'interesse della politica verso i cittadini. Quando parlo di secondi fini mi riferisco al timore che questo dibattito feroce in realtà miri al semplice abbattimento del governo attuale per sostituirlo con l'ennesima esperienza del «governo dei migliori», espressione magari delle corporazioni più forti.

Pensa che ci sia chi sta cavalcando questo malessere?
Non vorrei che ci fosse dietro l'idea che abbiamo bisogno di un nuovo Berlusconi, magari meno di destra, uno che non venga dalla politica a cui affidare le sorti del Paese. Ma io penso che ci sia bisogno di ricostruire la politica non di trovare l'ennesima scorciatoia.

Ma resta il fatto che la sfiducia dei cittadini è forte, perché secondo lei?
Penso che le ragioni siano molteplici. Tra queste c'è la disillusione verso il messaggio del berlusconismo, che prometteva di garantire ricchezza, successo e felicità personale a tutti, insieme alla riforma federalista che non c'è stata e che pesa soprattutto al Nord, ma dall'altra parte c'è la grande disillusione rispetto all'aspettativa ulivista e ciò che ci si attendeva dall'attuale governo. Poi, ovviamente, c'è l'idea che la politica sia luogo dei privilegi e in questo non si fa distinzione tra livello nazionale e locale, anche se noi siamo stati gli unici a riformare le pensioni dei consiglieri provinciali.

Certo il Trentino non è paragonabile all'andazzo della Sicilia o di altre Regioni, ma non pensa che si possa dare qualche altro segnale di sobrietà?
Penso che effettivamente, anche se non ha valenza taumaturgica, possiamo cercare di dare un segnale semplificando l'istituzione politica, ad esempio modificando il sistema elettorale.

Come?
Se si vuole aprire un dibattito possiamo pensare di stabilire un numero massimo di assessori provinciali. Non escludo neppure che si possa parlare di eliminare l'incompatibilità tra consigliere provinciale e assessore - e non per ragioni economiche - se ci sarà una larga condivisione e anche di soglia di sbarramento (come chiesto da Forza Italia, Ndr).

Lei nominò 12 assessori nel 2003 (ora ha perso Grisenti), sono troppi? Quanti ne bastano?
Penso a un limite più basso.

Ma la sua maggioranza ha detto no a modifiche alla legge elettorale.

Non voglio intromettermi, dico infatti che le modifiche si fanno solo se c'è larga condivisione.

E le «quote rosa»?
Il centrodestra ha minacciato l'ostruzionismo se non otterrà in cambio altre modifiche. Questa è tattica politica e non la giudico. Ma è evidente che se c'è l'ostruzionismo le quote rosa non passano e non possiamo farci niente.

di LUISA PATRUNO da l'Adige del 25/05/07

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